DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

La vera ospitalità cristiana. Don Divo Barsotti

Omelia - Casa San Sergio 2 marzo 1984 (1 Pt 4, 7-13)

Siamo quasi alla fine della Prima Lettera di san Pietro. Nella pericope che abbiamo ascoltato stamani, l'apostolo ci dice quella che dev'essere la nostra vita nella Comunità cristiana e quello che noi dobbiamo invece sopportare con gioia da parte del mondo.
Tutti e due gli atteggiamenti propri del cristiano sono determinati dalla prossimità della fine. È perché l'anima è cosciente di essere nell'imminenza dell'incontro con Dio che la sua vita non può essere che preghiera, un'attesa di desiderio, un'attesa nell'amore di questo incontro divino. È poi la carità che ci unisce.
È sempre questa, in fondo, la vita di ogni uomo e perciò anche la vita religiosa: rapporto con Dio, rapporto con gli altri, rapporto con noi stessi. E il rapporto con Dio non può essere che la preghiera, una preghiera che è, sì, già una comunione di amore, ma non può prescindere dal desiderio di una comunione più perfetta e pienamente sperimentata; è la manifestazione ultima della gloria che l'anima attende. Pur vivendo nel mistero, già una unione con Dio, questa unione con Dio nel mistero non può ancora beatificarci perché tocca soltanto l'apice della nostra anima, del nostro spirito, mentre la nostra esperienza psicologica e anche la nostra vita nel corpo, ci impediscono di fruire pienamente di questa immensa gioia che ci deriva dal dono che Dio ci fa di Se stesso. È in quanto Dio già vive in noi che noi lo desideriamo. È proprio nella misura che Egli si è fatto in qualche modo presente in noi che Egli alimenta la nostra fame, il nostro desiderio di Lui. Viviamo dunque questa preghiera, che è la preghiera della sposa, come dice l'Apocalisse nell'ultimo versetto: "E l'anima e lo Spirito dicono: Vieni!". "Amen, sì, vengo presto", risponde Gesù.
E poi la carità fraterna, una carità che è fatta anche di piccole cose, ma implica soprattutto l'ospitalità. Che cos'è questa ospitalità? In fondo oggi non viviamo più come al tempo di san Pietro, così estranei gli uni agli altri, senza possibilità poi di avere un minimo di conforto, dovendo andare lontano; e d'altra parte è anche vero che invece tutte le case sono più chiuse. Ma lasciamo da parte questo; può darsi anche che tutto questo non sia un male (può darsi; non lo so); ma la cosa importante mi sembra che sia un'altra: è l'ospitalità, è l'abitare negli altri e il far sì che gli altri abitino in noi. Siamo troppo egoisti. Tante volte, anche semplicemente ascoltando chi parla, si avverte subito che colui che parla non fa altro che girare intorno a se stesso e che gli interessano soltanto le cose che lo toccano; mai che veramente viva i problemi degli altri, mai che viva, non dico le pene, ma anche le gioie degli altri. Si ha bisogno di fare il vuoto riguardo a ciò che interessa i fratelli per non far presente agli altri che noi stessi; si parla di noi.
Quanto è pesante questa cosa per chi ascolta! Ma forse è pesante anche perché chi ascolta non ha la stessa carità. Non ha carità quello che parla, non ha carità quello che ascolta; ciascuno chiuso in se stesso, non è mai disponibile pienamente agli altri. Lo posso dire per me: a me dà noia quando uno parla sempre di sé o delle proprie cose. Se mi parla perché mi chiede qualcosa in quanto sono sacerdote, allora lo ascolto più volentieri, anche perché sono sollecitato dall'orgoglio, dal sentirmi colui che dà, colui dal quale l'altro aspetta qualcosa; ma se un altro mi parla soltanto di sé, soltanto delle sue cose, quasi che io debba interessarmi di cose che non mi riguardano, allora c'entra il fastidio. Ma il fastidio non è mica giustificato. Infatti chi ha carità si interessa anche delle cose che non lo riguardano, perché tutto ci riguarda, in fondo, se veramente noi siamo uno con tutti. E se non altro dovremmo avere un certo senso di pietà per queste anime che non sanno uscire di se stesse; dovremmo ascoltarle con una certa apertura, come una madre fa col bambino che è ancora troppo piccolo per capire che deve liberarsi di sé, che deve strapparsi alle proprie radici, che deve aprirsi a una vera carità. Anche nei confronti di queste anime così deboli dovremmo avere maggiore apertura e disponibilità, facendo sì però che l'altro capisca, che l'altro maturi. Ma non si può pretendere che tutti sian maturi; non lo siamo nemmeno noi: perché dobbiamo pretenderlo dagli altri?
Ecco, io penso che l'ospitalità vera sia questa; saper accettare l'altro così com'è, saper fare in modo che l'altro viva in te e tu viva in lui. Egli viva in te con le sue debolezze, perché tu ne abbia pietà; viva in te con le sue virtù, perché tu possa amarlo, aiutarlo e sostenerlo. Far sì che gli altri vivano in noi, non chiuder le porte del cuore. Lo diceva Benedetta Bianchi Porro: la carità è abitare negli altri, ma è molto più difficile che gli altri abitino in te. Ed è la stessa cosa, in fondo, perché questa è la carità anche in Dio: l'immanenza reciproca, il Padre nel Figlio, il Figlio nel Padre; io in voi, voi in me. È questa la vera amicizia. E questa immanenza sarà piena e perfetta quando noi saremo corpo spirituale. Ora invece, vivendo nel corpo, non possiamo amare in questo modo.
Vedette la cosa curiosa della nostra vita? Noi si comincia ad amare, perché nell'uomo tutto comincia nel senso, per il fatto che abbiamo un corpo, ma poi il corpo è l'impedimento più grave all'amore, perché io non posso essere in te. E voi vedete che anche nell'amore fisico l'uno vuole entrare nell'altro e rimangono sempre divisi, per forza. Soltanto quando noi non avremo più questo corpo, soltanto quando noi diverremo come Gesù, spirito vivificante, noi potremo vivere totalmente nell'altro e l'altro totalmente in noi; e io non vivrò più in me e vivrò in ciascuno di voi che mi ama, e voi vivrete in me se io vi amo. La mia salvezza è proprio questa e anche la salvezza di tutti voi è in me, se vi amo. La mia salvezza è proprio questa, e anche la salvezza di tutti voi è in me, se vi amo. Vivere l'uno nell'altro, ecco la vera ospitalità; sentire che non dobbiamo vivere in noi stessi, perché finché viviamo in noi stessi, non ci salviamo, ci perdiamo.
È questa la carità, che in fondo ripete il mistero della circuminsessione delle Persone divine: tutti in ognuno e ognuno in tutti. Ecco la vera carità.
Questo è vero per Nostro Signore, questo è vero per la Vergine: noi viviamo più nel suo cuore che in noi stessi. Ella ci ama; ed è cosa importante che in noi Ella viva, come in noi deve vivere il Cristo. Egli si dà a tutti noi, ma noi lo riceviamo soltanto nella misura che noi vivremo in Lui.
Questa ospitalità mi sembra che sia la vera consumazione, la vera perfezione dell'amore. Sì, abitare, dimorare l'uno nell'altro: Manete in me et ego in vobis. E anche nella preghiera sacerdotale Gesù ripete: "Come io nel Padre e il Padre in me, io in voi e voi in me". È a simiglianza di quella immanenza che si vive ora l'amore. Ed è in questo vivere l'amore, in questa immanenza reciproca, che viviamo la salvezza. La salvezza perché Lui ci salva, Lui che è l'Eterno. La salvezza perché la Vergine ci salva, Lei che è la Madre di Dio.
E poi il rapporto nostro col mondo. Anche nei riguardi del mondo, vedete, la persecuzione di cui parla san Pietro è provocata proprio dall'imminenza della fine, come dice l'Apocalisse. L'Apocalisse ci insegna che il dragone è stato ferito mortalmente, ma proprio perché ancora non è morto, per questa sua rabbia, il suo accanimento diviene più feroce. E via via che ci si avvicina alla fine, tanto più la persecuzione sarà violenta, sarà rabbiosa, sarà terribile, perché il maligno sente che gli sfugge il potere del mondo, il potere sugli uomini, il potere su di noi. Di qui la persecuzione. Ma quanto più saremo perseguitati, tanto più dobbiamo rallegrarci, dice san Pietro, perché la persecuzione prima di tutto prova che noi siamo dalla parte di Dio. Perché il contenuto della storia è soltanto il combattimento del maligno contro Dio.
E Dio rimane; come nel IV Vangelo, non combatte: Egli è. La sua Presenza! Così anche il cristiano: non reagisce, non combatte: rimane. Rimane nella pazienza, sopportando anche la persecuzione nell'amore. Ma sopportando la persecuzione anche nella gioia, oltre che nell'amore, perché la persecuzione, prima di tutto, dice che noi apparteniamo a Dio, e poi ci dice anche che è vicina la fine. Il demonio ci lascia in pace quando è lontana la sua fine, quando è pacifico il suo possesso; lo vedete anche dalla Sacra Scrittura. Ve l'ho detto più volte: il demonio nell'Antico Testamento è un po' il giullare di Dio; è uno che gioca, va a girare la terra... Ma prendete il Vangelo: c'è Gesù e il demonio. Il demonio, come continuamente si manifesta, come continuamente esce dal suo silenzio! La presenza di Dio, che implica per il demonio di essere veramente alla fine, lo provoca in qualche modo a invadere gli uomini in una misura che per noi è veramente sconcertante. Tanto sconcertante che gli esegeti non sanno capirla, perché son tutti dei razionalisti, e allora parlano di malattie, ecc. Ma anche se sono malattie, non si può escludere il demonio, perché altri-menti è negata la veridicità dei Vangeli. C'è nel Vangelo un'azione demoniaca chiaramente visibile e chiaramente operante. E questa presenza si manifesta massima proprio nella Passione del Cristo: "Questa è l'ora delle tenebre". Il demonio crede finalmente di aver la vittoria, e proprio nel medesimo tempo che prende il corpo di Lui, ecco, viene sconfitto.
Così è anche per la Chiesa. Vedete, se la crisi della Chiesa di oggi è in gran parte la persecuzione del maligno, ed è entrata anche magari dentro la Chiesa, questa è una prova che siamo veramente nella imminenza di qualche grande manifestazione di Dio. Che cosa sarà non lo sappiamo, ma certamente ci sarà, altrimenti non ci sarebbe questo livore, questo accanimento contro la Chiesa. Anche se non c'è. un accanimento palese, c'è l'accanimento però più grave contro la dottrina, contro la fede, contro la morale, contro la disciplina. È una cosa terribile. Ebbene tutto questo fa capire che il demonio ha paura. La Chiesa non ha paura, almeno i cristiani che veramente sono di Dio non possono aver paura. Il massimo che ci possono togliere, l'ha detto Gesù nel Vangelo, è la vita, ma che male c'è? Si tratta di due o tre ore e poi siamo già in paradiso! Come facciamo ad aver paura? È imminente la gloria. Ecco quello che ci dice la persecuzione. Anche la persecuzione della Chiesa implica il sentimento della fine.
Così il sentimento della fine - e giustamente i Vangeli vi insistono, e giustamente le Lettere Cattoliche vi insistono - il sentimento della fine è fondamentale, è essenziale alla vita cristiana. Dio è imminente. Se non è imminente per tutta la Chiesa è imminente per me. Fra pochi giorni sarò già morto. Perché non guardare la morte in faccia? È l'unica cosa vera, è l'unica cosa reale. Noi si vivacchia quaggiù e invece presto (fra quanto? ma è sempre poco il tempo), ci sarà l'incontro con l'Assoluto che determina tutta la nostra eternità.
Ecco, vivere questa imminenza. Ci fa paura? No, dovrebbe invece aprirci il cuore al desiderio, come dice oggi san Pietro, in una preghiera viva per la quale l'anima si apre a Lui che viene. Che sia questo davvero l'atteggiamento della nostra anima! Sì, la preghiera, il desiderio dell'anima che si apre a Dio; poi la carità che ci unisce, e la gioia (anche se siamo degli emarginati, anzi proprio se siamo emarginati), la gioia di sentire che il mondo si oppone a noi, non ci accetta, ci rifiuta. Ringraziamone il Signore: è il segno che siamo suoi. Per questo il maligno continua con noi la lotta che ha intrapreso una volta col Figlio di Dio.

U.S.F.P.V.

© Divo Barsotti